Il vitigno e vino Famoso, un autoctono tutto romagnolo
Aggiornamento: 1 apr 2022
Se sei in viaggio in Romagna e sei un appassionato di vini, prova questo semi aromatico riscoperto dopo tanti anni...
Il Famoso è un vitigno a bacca bianca caratteristico della Romagna che, riscoperto dopo anni di abbandono, sta ora tornando a far parte a pieno titolo dell’offerta enologica di questa regione. I primi documenti che citano il Famoso risalgono al 1437. Dimenticato per secoli, ha vissuto una totale riscoperta inizialmente perché era coltivato anche come uva da tavola ma anche per le caratteristiche aromatiche che donano al vino un bouquet molto ampio e piacevole. Si scoprì che tutta la Romagna era vitata con piccole quantità di queste viti; se ne trovavano nelle alte colline del cesenate e in particolare a Mercato Saraceno da dove è ripartita la sperimentazione e persino in pianura dove è noto col nome di “Rambèla”.
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L'esperienza di Tenuta Santa Lucia
Uno dei miei Famoso preferito è Famous di Tenuta Santa Lucia, ottenuto da uve di un singolo vigneto aziendale a medio impasto calcareo conosciuto come “Vigneto Galgano”. La fermentazione è spontanea e a temperatura controllata. Il punto di forza di questo vino è la permanenza sui propri lieviti per 8 mesi con movimentazione delle fecce fini e almeno 12 mesi in bottiglia. Il vino è giallo brillante. All’olfatto è fine, complesso e molto intenso con sentori di frutta esotica e di fiori gialli; esprime anche eleganti profumi di agrumi (buccia di agrumi come cedro e bergamotto) e leggere note speziate che arricchiscono il bouquet. Il palato è deciso, di grande freschezza, sostenuto da un persistente finale minerale.
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Leggi qui di seguito l'estratto del mio viaggio in visita a Tenuta Santa Lucia a Mercato Saraceno, tratto dalla mia raccolta "Viaggio in Romagna"
Il famoso, che famoso non è: un noir enologico
Penso al viaggio, e quindi al movimento, ogni volta che mi trovo fermo per troppo tempo nello stesso posto. Solo in movimento la percezione delle cose è più dinamica, l'indagine più attenta; c'è una spiccata propensione a far quadrare elementi che potrebbero sembrare staccati l'uno dall'altro, i sensi e le emozioni si amplificano.
“L'origine dell'esistenza è il movimento”, lo dice anche il filosofo arabo Ibn al-Arabi, antico scrittore di viaggio.
L'esperienza di viaggio è paragonabile all'assaggio di un buon vino: racconto di persone, geografia, territori, storie di vita.
Se sto viaggiando allora devo procedere con molta calma e lasciarmi guidare dalla strada e dal caso.
Lascio l'E45 con l'intenzione di riprenderla, in direzione Mercato Saraceno, solo dopo un tuffo imprevisto nella campagna cesenate. La mia navicella spaziale, una Renault Clio del 2003, quella dalle linee tonde, mi segue senza opporre resistenza se escludiamo qualche colpo di tosse alla frizione e uno stridìo sfrigolante dei freni.
L'ho strappata a mia mamma quando mi trovavo fisso a Bologna, motivando che sarebbe servita per qualche trasferta di lavoro anche se in realtà l'ho usata solo per le mie scorribande sui colli o verso il mare.
Anni fa un amico l'ha definita “un polmone” perché dai novanta ai centodieci impiega il tempo di un Ave Maria.
Se la vedesse adesso, ammaccata e con lo scotch a fermare il pulsante delle quattro frecce non saprei quale nomignolo potrebbe dargli. Sembra strano a dirlo, ma a questo ammasso di ferraglia gli voglio bene.
È Marzo, il sole brilla benevolo e cominciano le prime giornate calde, preludio di una primavera imminente.
Benedico questa deviazione, perché la campagna è tutta in fiore. Il verde luminoso è spezzato dai filari di peschi e albicocchi, muri colorati di bianco e rosa.
Uscito a Casemurate, devio per una strada secondaria che porta a Sud e poi improvvisamente piega verso il mare.
Contavo di tenere la collina di Bertinoro sulla destra per potermi orientare in direzione Cesena ma qualcosa è andato storto. Queste strade possono diventare un labirinto, potrei girare a vuoto per ore correndo in una direzione e poi trovarmi obbligato a invertire la marcia.
A un certo punto mi viene in aiuto un cartello in prossimità di una chiesa costruita al vertice di tre strade poco prima dell'abitato di Mensa Matellica, enclave senegalese di lavoratori impiegati nella raccolta della frutta.
Salgo su un ampio rivale fitto di alberi che si trasforma in ponte e un altro cartello mi dice che sono a Cannuzzo, comune di Cervia. Ricompare la collina di Bertinoro al termine di circa dieci chilometri di campi e case.
Ora sono sulla Via Ravennate, un rettilineo che corre parallelo alla superstrada ma ne rappresenta l'alternativa “slow” e collega Cesena a Ravenna, unendo paesi come puntini di un gioco da cruciverba.
Se si potesse vedere dall'alto, la pianura sarebbe un enorme reticolo rimasto immutato nei secoli fin dal tempo dei Romani che per primi la coltivarono intensamente suddividendola in centurie.
Frutta e verdura sono il motore economico di questa terra fertile e soleggiata, lavorata con cura. In questo punto della pianura le poche viti sono tutte già potate e i tralci raccolti diventeranno presto un propiziatorio falò notturno.
Molte case sono fatiscenti, ridotte a ruderi dai mattoni sgretolati, altre sono villette fresche d'intonaco abitate da contadini oppure da chi preferisce la calma della campagna alla vita di città.
Alcune hanno un bel fienile alto, utilizzato come deposito.
A bordo strada mi colpiscono i cartelli che promuovono corsi di ballo latino americano e quelli che indicano piste da ballo arrangiate nei saloni delle vecchie case del popolo, per una nuova socializzazione in salsa caraibica.
In quei pochi chilometri tra Cannuzzo e Martorano ne conto almeno cinque.
Ai primi segnali di urbanizzazione confluisco in una specie di tangenziale che dai campi porta dritto alla zona industriale, fatta di enormi piazzali vuoti e capannoni per lo stoccaggio della frutta. Montagne di cassoni colorati aspettano di essere riempiti di merce e spediti. Devo districarmi ancora per un po' tra le rotonde cittadine prima di trovare nuovamente l'ingresso dell'E45 che mi ricondurrà in una delle zone più alte del nostro Appennino, Mercato Saraceno e la cosiddetta sottozona di San Vicinio.
Ci arriverò solo dopo un panino nella zona industriale di Cesena in un bar anonimo gestito da cinesi, proprio vicino alla Camst. È l'orario di prosecchi e crodini, qualche pasta pronta e toast veloci.
Mi tornano alla mente gli anni passati a Milano, prima in cerca di lavoro poi impiegato in una grossa multinazionale. A guardarmi indietro sembra di aver vissuto tantissime vite, ognuna con le sue aspettative e inversioni di marcia.
Il bar sotto casa, in Piazza Napoli, era diventato dall'oggi al domani di proprietà di cinesi. Fu probabilmente tra i primi casi in Italia, preludio di una novità che avrebbe interessato di lì in avanti molte altre attività della zona, per poi espandersi al resto del Paese. Persone serie, gran lavoratori, si dice che comprassero le licenze in contanti senza nemmeno contrattare sul prezzo. A me l'idea di avere baristi cinesi non dispiaceva, dava un tocco di esotico al grigiore della città; ma quando l'affare si era spostato dalle attività commerciali alle squadre di calcio, qualche milanese iniziava a sentirsi spogliato; vittima dello stesso capitale che contribuiva a creare.
L'incontro di oggi mi serve per fare il punto della situazione su un vitigno, il famoso, che di famoso ha ben poco, tanto che la sua storia densa di mistero è ancora da scrivere.
Mi sono rivolto a Paride di Tenuta Santa Lucia, perché in lui ho visto quello spirito di ostinata determinazione che ha contraddistinto i grandi esploratori della storia.
Come il capitano solo contro l'equipaggio dopo mesi di oceano, Paride è stato il primo a investire su questo sconosciuto "autoctono" assumendosi il rischio di un possibile insuccesso. Anche Paride è un "autoctono", lo si capisce dall'accento spiccatamente riminese che alle mie orecchie ravennati suona famigliare, ma diverso dal solito. È cresciuto respirando l'odore del vino fin da piccolo quando il nonno lo caricava sul Volkswagen insieme alle damigiane di Albana e scendeva in riviera a rifornire i locali pieni di turisti.
<<Il contagio arrivò dall'alto>> racconta <<da San Silvestro sopra Mercato Saraceno>>.
Elio Montalti, costruttore in pensione con una vigna di famiglia, scese in paese dicendo che alcuni filari del suo podere non erano albana e nemmeno chardonnay, ma qualcosa di diverso. La foglia tonda, senza lobature, faceva pensare a quell'uva come a una parente della vitis silvestris.
Erano i primi anni del Duemila e il Signor Montalti, ormai avanti con gli anni, ricordava che gli anziani del paese la chiamavano e' famous, preferendola come uva da tavola piuttosto che vinificata.
Ricercando in rete qualche dettaglio in più su quel tale, ho trovato un dato interessante che con Paride non avevo trattato: pare che il Signor Montalti avesse ricevuto quell'uva da uno zio prete che l'usava per fare il vino da messa.
Comunque Paride, lungimirante e con la sicurezza di chi sa il fatto suo fu il primo a replicarla impiantando subito i primi filari; alzando ulteriormente la posta in gioco quando la vigna diventò un ettaro.
Nel frattempo, siamo sempre all'inizio del Duemila, gli studiosi completarono le prime ricerche genetiche sul famoso scoprendo che la sua presenza nel territorio romagnolo era tutt'altro che scarsa. Lo stesso vitigno tornava pochi chilometri più a valle col nome di valdoppiese o valdupies, termine che fece pensare a una ipotetica origine toscana dell'area della Val di Pesa mentre in pianura era già diffuso con il nome di rambëla.
È proprio per la larga diffusione tra i territori di Bagnacavallo, Fusignano e Faenza che si ritiene che l'origine del vitigno sia da cercare in pianura.
Traccia della rambëla, italianizzata rambella, compare in un censimento fatto sul finire degli anni Sessanta dall'azienda agricola Naldi del polo tecnologico di Tebano, insieme a circa quaranta vitigni “minori” presenti in zona.
Riguardo alla storia, il primo riferimento a questo vitigno risale al 1437 in una tabella del dazio comunale di Lugo che richiamava la compravendita di un generico “vino Famoso”, dove il temine famoso è da intendersi come aggettivo qualificativo.
Non sappiamo per quale motivo questo vino fosse tanto apprezzato; dovremmo piuttosto interrogarci sull'insana capacità dell'uomo di dimenticare. Nella Romagna dello Stato della Chiesa si esportava un vino così importante da perdere addirittura qualsiasi riferimento all'indicazione geografica o al vitigno in questione, in favore della pura e semplice sostanza. Un valore che il tempo ha praticamente cancellato e di cui rimangono pochissime tracce.
Nel diciannovesimo secolo vari documenti ne attestano la produzione sulle colline cesenati anche come uva da tavola, quindi quanto riferito dall'unico testimone oculare ad oggi, il Signor Montalti, era vero.
Il Novecento segna la quasi totale scomparsa del vitigno, salvo che nelle parole del ricercatore e ampelografo Norberto Marzotto che nel 1925 localizza nel territorio ravennate l'esistenza di un' uva detta Rambella.
Ma la testimonianza forse più significativa deriva da un grande poeta, il cui contributo è stato più volte fondamentale per definire misteri enologici del nostro passato.
Nella lettera 847 indirizzata a Giuseppe Chiarini di Firenze, datata 1866, Giosuè Carducci scrive:
“...Vieni dunque: che oltre alla bottiglietta di 40 anni, ci saran dei fiaschettini di vin santo di Romagna famoso, delle bottiglie toscane, delle bottiglie di canèna ravennate, delle bottiglie di barbera. Vedi che sono provvisto...”
Siamo nel territorio delle idee, non esiste documentazione certa, tuttavia quell'aggettivo dopo vin santo dovrebbe aprire una porta sul possibile impiego storico del vitigno famoso.
Uva smaccatamente aromatica, profumata, dello stile di quelle amate già in tempi medievali come il moscato o la malvasia, il nostro famoso poteva essere utilizzato proprio come vin santo o vino dolce da messa e comunque, visto il territorio di provenienza, un vino legato alla produzione clericale, la cui rete sul territorio nazionale potrebbe aver contribuito a renderlo apprezzato e, di conseguenza, famoso.
Durante gli assaggi Paride mi parla delle sue ultime sfide.
Una produzione biologica prima e dal 2017 totalmente biodinamica. La sua nuova scommessa è cavalcare al meglio tutti quegli accorgimenti che rendono un'uva perfetta e tornano in bottiglia sotto forma di vini carichi di personalità.
Apriamo varie bottiglie, dal Sangiovese rifermentato all'Albana, ma il discorso rimane sempre attorno a questo vino che sono venuto a conoscere personalmente nel luogo del suo rilancio. Lo lavora sia in versione spumante metodo classico, bilanciato nei profumi e nella carbonica, secco e tagliente, sia in due versioni ferme che a mio avviso dovrebbero rappresentare un riferimento sullo stile di vinificazione di questo vino per la variante di collina.
Se in pianura la caratteristica più apprezzabile è l'intensità dei profumi e la ricchezza di aromi primari, su queste alte colline (siamo a circa 250 metri sul livello del mare, orientati sulla valle del Savio da Nord verso Sud) il maggior valore si ha con la finezza e l'eleganza del naso che raggiunge nella versione più sofisticata, il Famous del vigneto Galgano, sfumature di buccia di cedro e bergamotto, leggere note speziate e un ricordo di crosta di pane dato dalla permanenza sui propri lieviti per circa 8 mesi con movimentazione continua delle fecce fini.
Lo sbalzo termico della vallata si fa sentire in bocca, con vini freschi dotati di una acidità sostenuta: un arma in più per agevolare l'invecchiamento, che può aspirare tranquillamente ai 10 anni.
Sono capitato in cantina proprio tra un pranzo di lavoro e una sessione di approfondimento con ristoratori che dovranno raccontare questo e altri prodotti ai propri clienti.
Sui tavoli sono sparsi calici e mezze bottiglie oltre ai resti masticati del pranzo.
Il paesaggio dalla tenuta ricorda la montagna verde e rocciosa mentre verso valle si intravede una pallida nuvola grigia che avvolge Cesena.
Non vorrei tornare indietro, ma sento che è il momento di fermarmi per un po' e cominciare a scrivere.
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